Freaks out: il film che racconta la diversità come ricchezza
Mostri che agiscono come uomini e uomini che agiscono come mostri. È una delle chiavi di lettura di Freaks Out, il nuovo film di Gabriele Mainetti, scritto insieme a Nicola Guaglianone, che arriva finalmente al cinema da oggi, 28 ottobre.
Siamo a Roma nel 1943. Nel circo Mezzapiotta si esibiscono quattro ragazzi. Potremmo chiamarli dei “freaks”, perché sono così particolari, così diversi dagli altri. Ma quei ragazzi hanno poteri eccezionali. Matilde (Aurora Giovinazzo) emana elettricità e accende le lampadine, Cencio (Pietro Castellitto) riesce a controllare tutti gli insetti, Fulvio (Claudio Santamaria) è una sorta di uomo lupo dalla forza sovraumana, e Mario (Giancarlo Martini) attira il ferro come un magnete. Dentro quel circo si sentono al sicuro, sono le star. Fuori si sentono solo dei mostri.
Quando il Circo viene distrutto dai bombardamenti dell’occupazione tedesca, i “fantastici quattro” si sentono perduti. Israel (Giorgio Tirabassi), il padrone del circo, è scomparso. E loro lo cercano. Ma c’è anche qualcuno che sta cercando loro. Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone hanno immaginato la storia di quattro “diversi” in un contesto storico come quello del Nazismo, che cercava la perfezione. Sono quattro persone che si sentono dei mostri perché, quando ti dicono che sei un mostro, alla fine ci credi anche tu. Nicola Guaglianone e Gabriele Mainetti ci raccontano questa storia con l’empatia che contraddistingue i loro film, come “Lo chiamavano Jeeg Robot”, e anche molti dei film scritti da Guaglianone, come “Indivisibili” e “In viaggio con Adele”.
Nella storia, a un certo punto, irrompe anche un gruppo di partigiani, i Diavoli Storpi, che in questo film ci sono anche per cambiare il modo con cui vengono trattati i disabili, quella sorta di rispetto, di reverenza, che è una discriminazione al contrario. «Puoi essere un violento, un esistenzialista, puoi essere chiunque, ma non sei uno sulla sedia a rotelle, sei una persona con il suo carattere, con pregi e difetti», ci ha detto Nicola Guaglianone. «La sedia a rotelle non è la prima cosa che vedo. Vedo le persone». È un punto di vista che nasce dalla sua esperienza di servizio civile, un’esperienza che ha segnato la vita di Guaglianone. Che oggi è ancora impegnato nel mondo del volontariato.
La sua empatia verso gli altri nasce dalla sua esperienza di servizio civile. Quale è stato il suo primo impatto con persone con disabilità?
«L’impatto iniziale è stato abbastanza “inquietante”. Sono arrivato a Capodarco, prima che ci smistassero in varie parti. E mi sono trovato di fronte a una serie di disabilità mai viste. Il primo atteggiamento è stato quasi di resistenza, di paura. Non conoscevo quel mondo, non sapevo come relazionarmi con queste persone. Avevo paura di cavarmela dando la pacca sulla spalla, che è una sorta di discriminazione al contrario. Tra l’altro era la stessa comunità dove Ciarrapico, Vendruscolo e Mattia Torre scrissero “Piovono mucche”, mentre io scrissi una serie in cui c’era già tutto quello che ho portato avanti e che ho raccontato, il rapporto con le diversità, ma viste superando i pregiudizi. Poi la serie è diventata “Un anno a primavera”, in cui non mi riconosco. La firmai, ma era diventata qualcosa di completamente diverso. Proprio il primo giorno a Capodarco, a un certo punto, vidi un obiettore, che era lì da cinque-sei mesi: aveva preso confidenza con questi ragazzi, era già entrato in quello che per me era un mondo straordinario. C’era un ragazzo disabile, con la testa piccola, senza una gamba, con le stampelle, seduto su una panchina. L’obiettore gli ha dato un calcio sulla stampella, e l’ha scagliata a cinque metri. «Brutti stronzi, ieri avete perso», gli ha detto. Uno era della Roma e uno della Lazio. Lo ha trattato come un amico che si era rotto la gamba sciando. Prima di tutto avevi di fronte una persona, non una disabilità che si mangiava tutto il resto, il carattere, la personalità».
Sempre durante il servizio civile c’è un’altra esperienza che l’ha segnata…
«La stessa cosa è accaduta quando mi hanno spostato a Tor Bella Monaca, quando la mattina andavo a prendere un ragazzo a rischio emarginazione in un campo nomadi a Villa Gordiani. Questo ragazzo aveva le stampelle e grandi cicatrici sulla testa. La mattina mi presentavo a questo campo nomadi ed ero spaventato, ma perché non ne sapevo niente. La mamma del ragazzo cucinava il pollo fritto alle otto di mattina, in mezzo al fango fuori dalla roulotte. Ma io a un certo punto, dopo lo spavento iniziale dato dall’ignoranza, sono entrato in quel mondo, sono diventato amico loro, sono stato anche invitato a un matrimonio. È un’esperienza che mi ha arricchito. Il pregiudizio nasce dall’ignoranza. Anche L’eroe dai mille volti, quando ha una chiamata all’azione, entra in un mondo straordinario, ma la prima volta rifiuta la chiamata. Luke Slywalker, quando riceve il messaggio della Principessa Leia, rifiuta di lasciare la sua casa. Ma perché rifiuta di entrare in un mondo straordinario? Perché ha paura, perché non lo conosce».
So che per lei la parola diversità, in fondo, non ha neanche senso…
«Per me la parola “diversità” non ha alcun senso. A meno che le diversità di cui parliamo, che esistono, siano le diversità caratteriali, culturali. Ogni volta che ho incontrato questo tipo di diversità mi sono arricchito. La diversità per me è ricchezza. Faccio parte di quella generazione che all’inizio degli anni duemila scese in piazza per gridare contro la globalizzazione. Sembravamo degli scemi, ma erano delle battaglie che sono state perse. E oggi vediamo i danni. Noi scendevamo in piazza contro la globalizzazione economica, ma oggi c’è una globalizzazione culturale. E quella mi spaventa molto».
In “Freaks Out” uno dei discorsi chiave è proprio quello sulla diversità, intesa come ricchezza, dono, o come disgrazia…
«Se ti ripetono per tutta la vita che tu sei un diverso, che sei un mostro, anche se non lo sei finisci per crederci. Fulvio dice “noi senza circo siamo solo una banda di mostri”, come se la loro identità fosse soltanto in pista. Questo li porta a mettere in dubbio le loro identità, le loro capacità. Loro riusciranno a trovare quella forza dentro loro stessi, a capire il valore e il potere che hanno, solo nel momento in cui anche loro uccideranno quel pregiudizio di credere che senza il padre, senza il circo siano solo dei mostri. Solo quando elaborano la separazione dal padre, nel momento in cui sono da soli, lo spirito di sopravvivenza, ma soprattutto il loro vero io esce fuori. È una cosa terribile da dire, ma ci sono persone che a 50 anni sono dei figli. La salvezza di chi è così è quando muoiono i genitori. Se vuoi sopravvivere devi diventare il genitore di te stesso. Nel finale di “Freaks Out” Matilde, da bambina che era, diventa una donna. Ha trovato il coraggio di affermare la propria identità, ha elaborato la separazione. E così fanno tutti».
I partigiani, i Diavoli Storpi sono in questo film anche per cambiare la rappresentazione con cui sono raffigurati spesso i disabili?
«Avevo letto un articolo su un gruppo di partigiani del nordest, i Diavoli Rossi, che facevano grandi azioni militari. Con i Diavoli Storpi mi piaceva l’idea di raccontare dei combattenti, dei guerriglieri, e di fare passare in secondo piano il fatto che fossero dei disabili. E poi trovano Matilde nel bosco. I Sette Nani non trovano Biancaneve nel bosco? E non hanno una disabilità? I Diavoli Storpi creavano un conflitto, che porta a una crescita, tra Matilde e loro. I protagonisti si sentono mostri all’esterno, si sentono protetti solo dal circo: quando arrivano le bombe, e si squarcia quel telone, è come se si trovassero a uscire dal ventre materno. I Diavoli storpi invece sono dei disabili che non si sentono meno a nessuno».
L’esperienza nel volontariato è ancora parte della sua vita?
«Un mio amico ha fondato una casa famiglia per donne che hanno subìto violenza o che vengono da situazioni di indigenza e per un periodo ho seguito con loro parte delle riunioni. Adesso mi sto occupando, tramite una persona molto vicina, di case famiglia per minori. Devo dire che la cosa che mi fa più male è quando tu vedi dei minori, ragazzi di 15 o 16 anni che sembrerebbero avere un destino segnato, immodificabile. Mi piace molto l’insegnamento, stare a contatto con giovani menti. Pensare che a quell’età sei già caduto in tutte le trappole sociali possibili e non hai più possibilità di riscatto mi fa stare male. Ogni volta che c’è l’occasione di fare qualcosa, di riuscire in qualche modo a distruggere questa equazione di giovani che non riescono più a camminare, mi ci butto a capofitto».
Che consiglio darebbe ai dei giovani che si stanno avvicinando al servizio civile?
«Il consiglio è quello di non impostare il rapporto con gli altri come insegnante-allievo o educatore- educando. Quando si ha a che fare con queste realtà si dovrebbe fare un patto fin da subito: ci deve essere uno scambio reciproco, al cinquanta per cento. Se si vuole cambiare anche gli altri bisogna essere i primi a mettersi in gioco. Secondo me si deve creare una sorta di relazione. Se decido di lavorare nel sociale ne uscirò cambiato, e spero che ne escano cambiati anche loro. È per questo che non mi sono mai messo sopra nessun gradino, ho sempre cercato di avere una relazione».
Articolo di Maurizio Ermisino pubblicato su RetiSolidali.it