CSV Lazio: connettere fondazioni e associazionismo
Roberto Giusti è stato vice presidente del Comitato di Gestione del Lazio, coordinatore operativo della Consulta nazionale dei Coge, dirigente Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio), responsabile del coordinamento dell’attività associativa relativa all’attuazione della legge n. 266 del 1991, che ha istituito i Centri di servizio. Grazie alla sua storia professionale, ha seguito da vicino tutto l’iter che ha portato alla nascita del CSV Lazio. A lui abbiamo chiesto di ripercorrere e valutare il percorso fatto dal punto di osservazione del Comitato di Gestione del Lazio, con uno sguardo in avanti alle possibili forme di collaborazione tra CSV e fondazioni e al terreno di lavoro della futura dirigenza.
Prosegue così il nostro ciclo di approfondimenti in vista del rinnovo delle cariche CSV Lazio, che, a partire dai due presidenti dell’unificazione, Renzo Razzano e Paola Capoleva; attraverso lo sguardo al sistema nazionale CSV della presidente CSVnet Chiara Tommasini , fino alla collaborazione sui territori con la Conferenza regionale del volontariato del Lazio raccontata dalla presidente, Lorena Micheli, ci porta ora a confrontarci con e sul rapporto tra CSV e fondazioni.
Lei ha assistito come componente del COGE alla nascita del CSV Lazio: ci racconta come è stata vissuta all’interno del Comitato di Gestione?
«La sua domanda mi permette di ricordare che l’unificazione di Cesv e Spes è un risultato che va ascritto alla gestione e al lavoro del Comitato di Gestione e non, come è invece accaduto per altre aggregazioni di CSV in diverse regioni italiane, all’attuazione della Riforma del terzo settore perseguita dai nuovi organismi da essa istituiti – l’ONC (Organismo nazionale di Controllo) e gli OTC (Organismi territoriali di Controllo) -. I Comitati di Gestione, ricordiamolo, erano, secondo la vecchia normativa, gli organismi preposti al controllo e, in parte, all’indirizzo dell’attività dei centri di servizio. Essi hanno operato per circa venticinque anni con grande impegno e incisività, riuscendo in questo arco di tempo ad assicurare le condizioni per un equilibrato sviluppo del sistema dei Csv, fino a quando, con la Riforma del terzo settore, sono stati sostituiti dall’ONC e dagli OTC. Io ho operato all’interno del Coge Lazio per nove anni, partecipando a quattro consiliature in rappresentanza di Fondazione Cariplo. In questo lungo periodo ho avuto il piacere e l’onore di lavorare a fianco di Cristina De Luca, che ha presieduto in modo particolarmente “illuminato” il Coge Lazio, mostrando grande sensibilità verso il mondo del volontariato, mettendo la sua esperienza in ambito politico e istituzionale al servizio di questo sistema, con una visione strategica che ha permesso di raggiungere nel tempo risultati importanti, tra i quali, come dicevamo, l’unificazione dei due originari CSV del Lazio. L’esigenza di una integrazione dell’attività dei due centri di servizio è sempre stata tema all’attenzione del Coge, in ragione del fatto che nel Lazio si era strutturato un sistema atipico rispetto a quelli delle altre regioni italiane. Mentre altrove si erano affermati modelli imperniati su un unico CSV competente sull’intera regione, oppure con più CSV aventi competenza provinciale, o comunque distrettuale, il Lazio era stato l’unica regione in cui erano stati costituti due CSV, entrambi con competenza sull’intera regione. Due sistemi di offerta, quindi, rivolti a un unico bacino di utenza, con inevitabili criticità in termini di efficienza nell’utilizzo delle risorse. Sin da pochi anni dopo la costituzione dei due centri, quindi, il Coge aveva svolto una funzione di stimolo per la progressiva integrazione e un maggior coordinamento delle attività dei due centri sul territorio. Nei primi anni 2000 questo lavoro aveva già portato ad alcuni risultati significativi, quali ad esempio l’adozione di un’unica sede operativa, la progressiva costituzione delle Case del volontariato territoriali a gestione unitaria, e una serie di altre iniziative che avevano visto le due realtà organizzative collaborare strettamente tra di loro. A metà anni 2000 divenne ancora più impellente perseguire un più efficiente utilizzo delle risorse in conseguenza della riduzione, assai drastica, delle risorse messe a disposizione del sistema dei CSV dalle fondazioni (nel Lazio gli stanziamenti sono passati da 7,9 milioni di euro nel 2005 a 3 milioni nel 2016). La spinta del Coge verso l’integrazione dei due CSV divenne quindi più ferma e incalzante, sostenuta anche dalla normativa di riferimento che attribuiva allo stesso Coge la facoltà di decidere, in presenza di mutate condizioni di contesto, la riorganizzazione del sistema regionale dei CSV mediante cancellazione dei due centri originari e l’indizione di un bando per l’istituzione di un nuovo centro. Il Coge scelse di non ricorrere a misure unilaterali e imperative, ma di intraprendere un percorso di condivisione con i due centri basato sulla riflessione comune e sull’accompagnamento ad una maturazione progressiva di consapevolezza delle criticità presenti e future. L’iniziale riluttanza dei due centri, in certa misura anche comprensibile, è stata superata grazie ad un atteggiamento di apertura ed ascolto dei loro vertici, che ha dato spazio a una collaborazione virtuosa, rispettosa delle rispettive autonomie e dei ruoli, alimentata dal comune intento di permettere un’appropriata riconfigurazione del sistema regionale, affinché esso potesse continuare a svolgere, pur nelle mutate condizioni di contesto, la sua preziosa opera di supporto e sostegno a vantaggio del volontariato. Nel 2016 il processo giunse a maturazione: i due centri elaborarono un progetto di fusione rispetto al quale il Coge ebbe modo di interloquire dialetticamente, con l’esame e la valutazione delle modalità realizzative da adottare. Il CSV Lazio è nato ufficialmente nel gennaio 2019, cosicché il sistema della nostra regione è arrivato preparato al momento in cui, proprio nel corso di quell’anno per effetto della Riforma del terzo settore, tutti i contesti regionali dovettero rispondere alla spinta all’aggregazione tra i centri esercitata da ONC e OTC. Per tutti noi componenti del Coge ciò è stato motivo di orgoglio e di grande soddisfazione».
Una valutazione di questi primi tre anni: le aspettative sono state confermate o ci sono elementi da sviluppare a suo parere?
«In questi tre anni sono successe molte cose che hanno posto il CSV neonato di fronte a condizioni di assoluta straordinarietà. Una prima condizione di eccezionalità è derivata dall’avviamento del nuovo soggetto che, pur essendo frutto della sintesi di due realtà già da tempo sul territorio, ha dovuto necessariamente realizzare l’integrazione delle due governance pre-esistenti e una profonda rimodulazione organizzativa, con la ridefinizione di ruoli e funzioni interne. Un secondo tipo di criticità è stato indotto dalla Riforma del terzo settore, che per tutti i CSV italiani ha indicato due importanti direttrici di innovazione: la prima, relativa ai destinatari della missione, individuati non più solo nelle OdV, ma in tutte le realtà di volontariato operanti all’interno delle diverse categorie di soggetti di terzo settore (OdV, APS, cooperative sociali, altri ETS di varia natura), con un allargamento notevole del bacino di utenza dei centri; l’altra direttrice di innovazione riguarda la politica delle cosiddette “porte aperte”, e cioè l’allargamento della base associativa dei centri, finalizzato a un coinvolgimento maggiore delle realtà associative presenti sui territori nella gestione dei centri stessi. A queste due sfide, già di per sé complesse, si è aggiunta l’emergenza Covid, che ha creato non poche difficoltà introducendo ulteriori elementi di novità: sia per le mutate esigenze operative delle associazioni servite dai centri, sia per la necessità di riconfigurare servizi e strumenti di intervento del CSV in conseguenza delle note restrizioni delle attività “in presenza” che hanno caratterizzato questo periodo. Ritengo che, di fronte a questi tre livelli di criticità, il CSV Lazio abbia dato una risposta complessivamente molto buona. Nell’emergenza del Covid, il CSV è riuscito a mantenere la barra dritta in un mare in tempesta in cui il disorientamento era grande, per tutti i soggetti e a tutti i livelli istituzionali; rielaborando prontamente strategie e modalità di svolgimento delle attività, il CSV è riuscito a porsi come valido punto di riferimento per il mondo associativo. Riguardo all’avviamento del nuovo soggetto, mi sembra ci sia stato un impegno molto significativo nel realizzare il percorso di integrazione e di sintesi essenziale affinché il CSV Lazio potesse cominciare ad operare come un nuovo soggetto dotato di un proprio DNA. Direi che, dopo la lunga gestazione del progetto di fusione e la nascita del CSV Lazio, questo triennio è servito allo “svezzamento” del nuovo soggetto: il nuovo CSV è stato pian piano abituato ad operare secondo le nuove logiche unitarie. Credo sia stato fatto un ottimo lavoro da parte dei due presidenti che si sono succeduti – Renzo Razzano e Paola Capoleva – che hanno condotto con abilità ed esperienza, con l’ausilio delle altre figure dirigenziali, la macchina del nuovo centro. La nuova dirigenza dovrà ora proseguire e dare ancora più compiutezza a questo lavoro. La sfera dove il CSV Lazio è riuscito a impattare meno riguarda l’attuazione del disegno di innovazione previsto dalla Riforma, relativamente all’estensione dell’intervento verso una platea più ampia e diversificata di soggetti, e al coinvolgimento maggiore del territorio nella propria base associativa. Aspetti, questi, che hanno comprensibilmente avuto una minore priorità in questo triennio, per le condizioni di cui abbiamo detto, e che richiedono quindi un’intensificazione dell’azione nel prossimo mandato».
Il rapporto tra Fondazioni bancarie e Centri di Servizio non si limita alle prescrizioni del Codice, ma si articola e si differenzia a seconda dei contesti. Quali sono a suo parere le possibili forme di collaborazione tra CSV e Fondazioni, e specificatamente, tra CSV Lazio e le Fondazioni bancarie del Lazio?
«Le fondazioni sono collegate ai centri di servizio per effetto dell’obbligo normativo di contribuire al finanziamento delle loro attività, destinando una quota dei propri risultati di gestione, e in relazione all’opportunità di concorrere alla definizione delle loro politiche di intervento in virtù della presenza maggioritaria di rappresentanti delle fondazioni negli organismi preposti all’indirizzo e al controllo dei centri di servizio (prima i Coge e ora l’ ONC e gli OTC). L’obbligo di finanziamento ha trovato ovunque piena applicazione: tutte le fondazioni lo hanno osservato con puntualità e senso di responsabilità, garantendo un flusso sempre coerente con le aspettative del sistema anche grazie ad accordi che hanno previsto contributi aggiuntivi a quello obbligatorio. Al contrario, la presenza maggioritaria all’interno degli organismi di controllo non si è sempre tradotta nell’esercizio di una effettiva “influenza” delle fondazioni sugli indirizzi del sistema, essendosi questa realizzata solo in presenza di uno specifico impegno, da parte delle stesse, a dedicare attenzione e risorse organizzative a vario livello per partecipare attivamente ai processi gestionali in questione. Credo che la relazione tra il mondo dei CSV e quello delle fondazioni, mutevole nel tempo e diversa da contesto a contesto, sia fortemente condizionata dal segno di questa scelta di impegno, oltre che naturalmente dalle opinioni di ogni fondazione sull’efficacia e sul “merito” dell’azione dei centri di servizio. Al riguardo vorrei condividere con chi ci legge uno schema, molto informale e un po’ ironico, che ho spesso utilizzato nel mio lavoro per inquadrare il “posizionamento” di ogni fondazione rispetto al sistema dei CSV. Lo schema individua quattro profili tipici di fondazione: il primo è quello dei “tartassati” che nasce dall’incrocio tra una bassa propensione della fondazione ad impegnarsi e una considerazione prevalentemente negativa dell’attività dei centri di servizio. Questa categoria di fondazioni considera l’accantonamento al volontariato come una tassa iniqua, che sottrae risorse allo svolgimento della propria attività di missione per destinarle ad usi di minore importanza, talvolta neanche del tutto chiari. La seconda categoria dello schema è quella dei “silenti finanziatori”, fondazioni anch’esse con una scarsa propensione ad impegnarsi, che hanno però un giudizio fondamentalmente positivo sull’attività dei centri di servizio. Esse ritengono di svolgere una funzione di utilità per il territorio destinando le proprie risorse ai CSV, ma non desiderano occuparsi più di tanto delle modalità di impiego di tali risorse, conferendo così una sorta di delega in bianco al sistema dei CSV e agli organi preposti al loro controllo. Nel caso invece delle fondazioni propense a mettersi in gioco, partecipando attivamente al funzionamento degli organi di controllo, abbiamo da un lato il profilo dei “mastini”, che non hanno un giudizio positivo dell’attività dei centri e sono quindi fautori di un controllo molto fiscale dell’attività dei CSV, tendenzialmente inibitorio della stessa; dall’altro lato si pone la categoria dei “partner strategici”, cioè le fondazioni attive e con una buona considerazione del lavoro dei CSV, che si pongono nei loro confronti come interlocutori positivi, fautori di un controllo di tipo collaborativo, e interessati a stabilire sinergie tra le rispettive attività di missione. Sono ovviamente questi ultimi gli interlocutori più interessanti per i Centri, e la politica di relazione più proficua da perseguire con il mondo delle Fondazioni dovrebbe puntare ad allargare quanto più possibile questo gruppo. Non è semplice tradurre questo schema nel contesto del Lazio, caratterizzato da quattro fondazioni, una delle quali – la Fondazione Roma – molto grande, con competenza regionale e proiezioni anche al di fuori della regione, e tre piccole fondazioni – di Viterbo, Civitavecchia, Rieti – che operano solo nel loro ambito provinciale. Credo che sarebbe necessario preliminarmente approfondire la conoscenza di ciascuno di questi enti, per capire bene a quale categoria dello schema essi appartengano , per poi elaborare strategie di approccio mirate in funzione del tipo di interlocutore. La tendenza dei centri di servizio, nel Lazio come nella maggior parte degli altri contesti regionali, è stata invece quella di considerare le fondazioni come un monolite, un blocco con un unico pensiero, coincidente per lo più con quello espresso dall’Acri, che nel tempo ha svolto una funzione di rappresentanza o supplenza delle singole fondazioni. Credo che ciò abbia pregiudicato la possibilità di “convincere” le Fondazioni del valore dell’attività svolta dai centri stessi e dei potenziali vantaggi che ogni fondazione potrebbe trarre da un atteggiamento più proattivo e collaborativo con i CSV. Penso quindi che si dovrebbe lavorare principalmente su questi due versanti: da un lato puntare a una migliore rappresentazione del lavoro che il CSV Lazio sta facendo sul territorio, più mirata sulle singole fondazioni, e senza dimenticare che Fondazione Roma non è aderente ad Acri e che, quindi, il canale associativo risulta in questo caso disfunzionale; dall’altro lato si dovrebbero esplicitare in modo più incisivo i vantaggi e le sinergie che potrebbero derivare da una più fattiva collaborazione tra fondazioni e centri. Ad esempio attraverso la promozione di iniziative volte a una miglior qualificazione degli enti di terzo settore per l’accesso ai programmi di finanziamento delle fondazioni basati su bandi o altri strumenti di progettazione in rete. Un altro terreno di interesse delle fondazioni è quello che le vede impegnate non solo come enti erogatori di risorse, ma come promotori di partnership territoriali, estese a soggetti sia pubblici che privati, per la realizzazione di progettualità di interesse per il territorio. In questo caso i CSV potrebbero proporsi utilmente come anelli di congiunzione tra le fondazioni e il vasto (e spesso disperso) mondo dell’associazionismo. Come si capisce, l’idea è sempre quella di attivare leve che sollecitino l’interesse delle fondazioni, spingendole ad impegnarsi maggiormente nel sistema e a porsi come “partner strategici” dei Csv, secondo lo schema di cui ho parlato prima».
Quale augurio si può fare al nuovo gruppo dirigente?
«Credo che il primo augurio sia di avere di fronte a sé un triennio in cui non vi siano ancora emergenze tali da assorbire energie e attenzione in modo pressoché esclusivo, distogliendoli così dalla missione più tipica del centro. Mi auguro, poi, che trovino conferma le mie sensazioni circa l’avvenuta realizzazione del primo stadio di integrazione tra i due vecchi centri, quello che prima ho definito di “svezzamento” del nuovo centro. E che la nuova dirigenza possa così portare avanti gli obiettivi, auspicabilmente focalizzati sulle due direttrici dell’allargamento del bacino di utenza, da un lato, e della base associativa dall’altro, potendosi avvalere di un apparato che si senta e si muova come una macchina unica e non come l’assemblaggio di due macchine nate in fabbriche diverse e “costrette” a marciare l’una vicino all’altra».
Articolo di Chiara Castri su “Reti Solidali“